giovedì 9 agosto 2012

Anteprima: Gli zombi non piangono di Rusty Fischer


Eccoci qui... Sto per presentarvi un libro che uscirà ad ottobre per GIUNTI Y, una delle più famose tra le collane YA italiane. Ebbene, vediamo un po' di che si tratta...


Titolo: Gli zombi non piangono
Titolo originale: Zombies don't cry
Autore: Rusty Fischer
Editore: Giunti Y
Prezzo: 14,50 €
Uscita: Ottobre 2012
Trama: Maddy Swift è una studentessa normalissima e un po' imbranata, frequenta il liceo della tranquilla cittadina di Barracuda Bay e ha una cotta per il nuovo ragazzo della scuola. La sera in cui Stamp finalmente la invita a una festa è anche quella in cui la sua vita cambierà per sempre. Perché è il suo primo fantastico appuntamento? Non esattamente. Quando Maddy, tutta agghindata, esce di casa, fuori piove a dirotto. Non trova la strada per raggiungere la festa e proprio quando crede di essere arrivata a destinazione viene colpita in pieno da un fulmine. Al risveglio, si trova con la faccia in una pozzanghera, stordita e completamente inzaccherata. Ma il fango è l'ultimo dei suoi problemi. Sono quel buco fumante sulla testa, il cuore che non batte più e i polmoni che non funzionano a farle sorgere qualche sospetto. Scopre con raccapriccio di essersi trasformata in una delle creature che più la spaventano: una morta vivente. E che la sua urgenza più impellente è mangiare immediatamente un cervello fresco, se vuole evitare il poco attraente processo di putrefazione. Aiutata da due compagni zombi, Maddy non solo imparerà a gestire la sua nuova identità, ma anche a difendere se stessa, il suo amore e tutta Barracuda Bay dallo Zombi Armageddon. 

Grazie al sito giunti Y, abbiamo la possibilità di leggere il prologo in anteprima!

"Il cimitero è silenzioso a quest’ora, una luna piena perfettamente adeguata allo scenario illumina ettari di prato appena tagliato e chilometri di lapidi equidistanti fra loro. L’ immagine di quelle file interminabili infonde una strana sensazione di serenità: sembra di guardare migliaia di denti di una gigantesca bocca che sorride solo per me. In questo periodo dell’anno l’aria è pungente ma pulita e rende tutto più terso, limpido, definito. È come ritrovarsi davanti la morte in alta risoluzione. 
Ho sempre pensato che per essere un cimitero questo non fosse poi così spaventoso. Gran parte di quelli che si vedono in tv brulicano di insetti viscidi e di ombre sinistre, hanno le lapidi storte e i cancelli rotti, le tombe sono ricoperte di erbacce secche e tutto questo contribuisce a dare al luogo l’atmosfera che generalmente ci si aspetta in un cimitero.
Ma qui, in Florida, i cimiteri sono una cosa seria. 
Altroché.
I cancelli non cigolano quando li apri, non si vedono inquietanti gatti neri scorazzare qua e là, l’erba è curata come quella di un campo da baseball, le lapidi sono tutte dritte, un vialetto laterale in ottime condizioni costeggia il cimitero in tutta la sua lunghezza, le tombe sono pulite e i fiori sempre freschi.
Alla luce della luna ispeziono il contenuto del cestino da picnic che giace ai miei piedi.
Quattro lattine di gazzosa?
Ci sono.
Forchette e coltelli di plastica?
Ci sono.
Piatti di plastica?
Ci sono.
Tovaglioli di carta?
Ci sono.
Manette (se le cose dovessero mettersi male)?
Ci sono.
Catene da caviglia (se le cose dovessero mettersi molto male)?
Ci sono.
Accetta (se le cose dovessero mettersi molto, ma molto male)?
C’è. 
Cervelli freschi?
Ovvio.
Sorrido, richiudo il cestino stringendo bene le cinghie, e gli do un colpetto finale sopra. Le nuvole coprono la luna, ma grazie alla mia nuova supervista da zombi, ebbene sì, riesco ancora a vedere bene. (Be’, a dire il vero, ogni cosa vira un tantino sul... giallo. Poco male, dopo un po’ ci si abitua.)
La tomba che ho davanti sembra nuova. Metà delle sedie bianche pieghevoli è ancora allineata in fondo al cimitero, mentre il resto è stato accuratamente sistemato su un carrellino che qualcuno deve aver dimenticato di riportare alle pompe funebri. Non c’è da stupirsi. Dopo tutto quello che è successo negli ultimi giorni, chi può negare che i becchini siano sottopagati e sovraccarichi di lavoro?
Non ho bisogno di guardare l’orologio per sapere che sono trascorse 72 ore da quando l’ho trasformato: a questo punto starà iniziando a stiracchiarsi laggiù, tre metri sotto terra. Sospiro, afferro la pala che ho recuperato dal retro del furgone e inizio a scavare. È faticoso ma, vi dirò, non mi dispiace fare del movimento. Gli zombi tendono a irrigidirsi, perciò quando si presenta l’occasione di muoversi, e di evitare così che le giunture si blocchino del tutto, be’, perché sprecarla, dico io.
Tolgo velocemente il primo strato di terra, poi salto nella fossa e continuo a scavare. Me la prendo comoda, non ha senso sprecare energie prima del nostro incontro. Ogni mio movimento scandisce una sorta di ritmo in questo cimitero desolato immerso nel bagliore lunare: conficco la pala nel terreno, scavo, mi butto la terra alle spalle e ricomincio; conficco la pala nel terreno, scavo, mi butto la terra alle spalle e ricomincio. Vado avanti così finché il ritmo la pala colpisce la bara sollevando una pioggia di schegge di legno verniciato di fresco.
Mi sposto su un lato e uso l’estremità della pala a mo’ di cazzuola per spazzare via attentamente il sottile strato di terra che ricopre la cassa. Quando anche l’ultimo granello è sparito e il legno è in bella vista, mi appoggio alla pala, raddrizzo la schiena, mi passo una mano sulla fronte, così, per abitudine (visto che gli zombi non sudano), e resto in ascolto per un paio di minuti.
Sorrido sentendo un fruscio provenire dall’interno, si percepisce a malapena, è il tipico rumore che fa un completo da funerale a contatto con l’imbottitura di seta della bara. (E credetemi, se lo sentite una volta, non ve lo scordate più.) Tanto per essere sicura di aver a che fare con uno zombi buono e non con uno cattivo (sì, avete capito bene, di fatto esiste una distinzione), do un paio di colpetti al coperchio con i miei anfibi nuovi. Toc, toc. 
Attendo, gustandomi la pace di quella notte d’autunno, poi finalmente la risposta arriva da sotto i miei piedi: toc, toc. Bravo, bello. Faccio leva con il manico della pala e sento il sibilo dell’aria che fuoriesce mentre il coperchio a tenuta stagna si solleva come lo sportello del bagagliaio della cara vecchia station wagon di papà.
All’interno giace il corpo statuario di un giovane pallido, in abito blu, e con un adorabile tirabaci sulla fronte bianca come il marmo. Non sono uno zombi da tanto tempo, eppure quel poco è bastato a sconvolgere completamente i miei gusti in fatto di uomini.
Una volta, quando ancora ero una Normale, avevo un debole per gli sportivi. Avete presente quei corpi scolpiti, i muscoli che minacciano di esplodere sotto la classica canottiera bianca sudata, la pelle abbronzata... i segni dell’abbronzatura. Ora invece mi basta un leggero pallore, l’assenza totale di grasso corporeo e di battito cardiaco, e un paio di occhiaie scure per non capirci più niente.
Il tizio che ho davanti in questo momento, be’, ha proprio tutte le carte in regola.
Accenna un sorriso, ma non si capisce a chi, forse alla luna piuttosto che alla ragazza che di fatto l’ha ficcato in quella bara con le sue mani. Ad ogni modo, essersi risvegliato tre metri sotto terra in una cassa di legno imbottita di seta, non sembra sconvolgerlo affatto.
«Chi sei?» mi chiede piano. «Perché hai una pala? Dove sono? Di chi è questo vestito? E perché è... blu?»
Ah, i giovani e la loro sete di conoscenza... Lo zittisco portandomi un dito pallido alle labbra grigiastre e assaporo la terra fresca e le schegge di legno, poi mi pulisco la mano sui pantaloni neri da lavoro. Lo trascino fuori dalla bara, lo aiuto a uscire dalla fossa, lo faccio accomodare per terra, infine apro il cestino da picnic per mostrargli i cervelli freschi e subito vedo i suoi occhi che si illuminano.
Mentre divora il primo cervello, sospirando inizio a riempire la fossa, un po’ più velocemente di prima, poi con la pala appiattisco per benino l’ultimo strato di terriccio, di modo che non si veda che qualcuno l’ha smosso.
Lui si avventa subito sul secondo e non faccio nemmeno in tempo a dirgli, “Ehi, lasciamene un po’”, che lo vedo abbandonarsi all’indietro nel suo abito ammuffito darsi colpetti sullo stomaco e ruttare.
Apro una lattina e gliela porgo.
«Grazie, Maddy» mi dice alla fine con lo sguardo spento, pieno di una nuova consapevolezza e dei brandelli di materia grigia e carne sanguinolenta fra i denti.
Scuoto la testa e sospiro di nuovo mettendomi a sedere su un mucchio di terra fresca accanto alla sua altrettanto fresca tomba. Non sembriamo proprio Leonardo e Kate sulla prua del Titanic, me ne rendo conto, ma date retta a me, se improvvisamente scopriste di essere morti (pardon, non-morti), anche voi vi accontentereste di quello che passa il convento."

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